Gianpiero Fanuli

“Sono attratto dall’equilibrio tra l’analisi di una immagine e la messa in scena… e l’interazione tra uomo ed ambiente…”

Gianpiero Fanuli

“Sono attratto dall’equilibrio tra l’analisi di una immagine e la messa in scena… e l’interazione tra uomo ed ambiente…”

Qual è stato il tuo primo approccio alla fotografia?
Sono sempre stato affascinato sin da piccolo dall’immagine e da tutto ciò che era “visione”, giornali illustrati, riviste, fumetti, così poi verso i miei 20 anni in maniera naturale decisi di iscrivermi ad una scuola di fotografia a Roma, “Istituto Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata“. Lì insegnavano tutto, dalla tecnica di stampa alla ripresa, e nei ritagli di tempo avevo fatto amicizia con una ragazza che faceva lì da assistente e mi accompagnava in una piccola libreria in un pianerottolo sottostante la scuola. C’erano libri di fotografia dei grandi autori, straordinarie riviste degli anni ‘70 e ‘80 come Zoom, Photo, Progresso fotografico, il diaframma di Lanfranco Colombo, che presentavano dei portfolios di fotografi internazionali oltre che italiani. Fu una rivelazione. Da lì anche se piacevoli i ritiri in compagnia a vedere libri e riviste, iniziai a comprarne e collezionarli per i fatti miei creandomi una mia “collezione privata”.

Perché la Polaroid?
La Polaroid la scelsi non casualmente. Nel periodo di studi a Roma avevo perfettamente in mente l’idea di un colore, ma non conoscevo come realizzarlo o farmi aiutare. Poi un giorno mi capitò tra le mani una vecchia rivista che parlava della collezione internazionale della grande Barbara Hitchcock e dei mezzi utilizzati. Così ricordo, corsi in un vecchio negozio di fotografia, all’epoca Roma ne era piena zeppa e acquistai una Polaroid image e iniziai a scattare di tutto, con risultati scarsi ma i colori, le atmosfere e il mood che cercavo erano già lì a portata di mano e senza il bisogno di stampatori e intermediari, dal piccolo mirino e una macchina di plastica potevo divertirmi e filtrare il mio sguardo. Il colore, la pasta dello sviluppo ti portavano indietro alle istantanee di famiglia, in più si sposavano con i miei soggetti e la vena retrò che cercavo.

Raccontami della vena malinconica e retrò in tutte le tue immagini?
Non so se la vena malinconica faccia parte della mia ricerca. C’è un termine inglese “bygone” che sintetizza perfettamente il senso di quello che identifico nel mio lavoro, ha diversi significati e forse mi è più congeniale di “nostalgico” o “vintage”.
L’effetto retrò delle mie immagini di sicuro mi affascina e mi appartiene. Sono cresciuto negli anni ‘80, con i programmi surreali di Enzo Trapani, le luci degli ultimi varietà pop della sera, le donne splendidamente iconicizzate nei programmi. È anche un filtro che mi serve a non identificare troppo ciò che non mi interessa e illustrare forzatamente un luogo o una persona ma esprimerle, senza analizzarle. Così che sia un corpo di donna, un nudo, o una persona di spalle in soggettiva, cerco l’atmosfera e l’iconografia del luogo.

Come spieghi l’evoluzione dalla architettura/metafisica caratterizzata dalla quasi assenza delle persone, per poi passare al nudo ed arrivare ad un paesaggio caratteristico italiano dove il vero protagonista sono le persone?
Credo che il mio primo vero progetto sia stato sulle architetture in travertino di Aldo Rossi. Prima un piccolo progetto sulla Puglia in cui iniziavo a capire quello che mi interessava. All’epoca chiedevo alle amiche e a mia madre di accompagnarmi in giro, visto che non avevo ancora la patente.
Tra il 2004/05 abitavo a Roma ma spesso andavo a trovare a Perugia quella che era la mia ragazza dell’epoca e passavo spesso da fontivegge, un’architettura moderna di Aldo Rossi. Era perfetta per me, sembrava un fondale, una quinta teatrale pronta per essere ripresa, poi aveva un ché di metafisico. Così un giorno pensai, non avendo con me la Polaroid di acquistarne una da un vecchio ottico che aveva una scatola con fotocamera polaroid 600 one step e tre pellicole omaggio all’interno. Iniziai a “giocare” e comporre quello che avevo già immaginato, e da lì che iniziò tutto. In quel periodo mi affascinavano i luoghi razionalisti o i centri direzionali, perché intorno non c’era il disturbo della città, le macchine, le insegne, mi interessavano solo le persone che si confondevano tra le pieghe e le ombre di queste città nelle città. Era un palcoscenico ideale e non pagato dove potevo riprendere ciò che volevo. Dopo col tempo ho iniziato e continuato questo progetto evolvendolo con il nudo che è stata una parentesi che porto avanti e che integro nei mie nuovi lavori. Di recente sto sviluppando una serie che ho intitolato “Riviera”, ed è un viaggio in progress iniziato in Liguria e poi portato avanti in tutte le coste d’Italia. Lo Penso come un progetto che idealmente segue il lavoro sulle città. Qui c’è però una visione più completa, cominciano ad apparire vecchie insegne, la donna e i colori, mi immergo completamente in quell’iconografia un po’ tra cinema e vecchi cliches anni ‘70. Non cambia invece l’idea di proseguire cercando sempre icone, palcoscenici in cui mi identifico e che prendo dalla realtà per raccontare un po’ il mio immaginario. Penso al mio progetto in maniera evolutiva e noto guardando vecchie e nuove immagini che ciò che non inserivo è quello che mi mancherà dopo e che aggiungo nel lavoro successivo. È un po’ come se i personaggi fotografati nelle città ora andassero anche in vacanze e si prendessero dopo il lavoro una vacanza edonista e allegra a guardare altri orizzonti.

Chi sono i tuoi fotografi “preferiti”?
Tra i fotografi che mi hanno sempre affascinato c’è sicuramente Art Kane. Era un fotografo di moda ma aldilà della committenza pubblicitaria o la moda, aveva un’identità fortissima. Mi colpì un lavoro pubblicato su zoom degli anni ’80, era una pubblicità per Cacharel e c’era solo un uomo che sfrecciava per le città del west degli Stati Uniti e si confrontava con vecchi murales hollywoodiani e vecchie Cadillac, un lavoro che sfiorava il nonsense, ma metafisico e magico, si avvicinava più che ad una pubblicità ad un oggetto d’arte.
ho una simpatia e sono un fan dei lavori di Franco Fontana, lo trovo sanguigno e a volte quasi zen nel guardare. Ha un senso del plastico e riesce ad erotizzare qualsiasi cosa.
Luigi  Ghirri anche se oggi è stracitato al limite è stato importantissimo, credo di essere passato alla sua mostra che allestirono al Museo della Calcografia a Roma tre volte in poco più di una settimana. Aveva il dono di vedere la poesia ai lati. Amo poi Ralph Gibson e tanti tanti altri…

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Tra i progetti futuri a settembre ho in programmazione la partecipazione al Mia Photo Fair di Milano con la galleria Riccardo Costantini Contemporary, sto lavorando ad alcune pubblicazioni, e poi non lontanissima una personale al centro Phos di Torino, organizzata dalla galleria Ares Contemporary di Lugano.

By Maria Ares Chillon per QUIDMAGAZINE

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